Smartworking, southworking, remote working, lavoro agile, telelavoro. Se ne parla da ormai quasi due anni e sì, avrei dovuto raccontarlo prima anch’io. Ecco un piccolo bilancio su come ho vissuto io il Coronacene, l’era di ufficio mobile in cui ho trasformato in spazio di lavoro divani, tavoli da cucina, piani cottura, balconi, sdraio, giardini e persino docce e bidet, mettendo a dura prova la mia cervicale e sperimentando un po’ tutte le nuove forme di stress da lavoro casalingo, dalla “tech neck syndrome” alla “zoom fatigue”.



Da quando l’Annus horribilis è iniziato, una vita impensata è cominciata: forse ai margini delle città, ma mai lontano da quello che in questi mesi il mondo ha attraversato tra consuete fragilità e nuove trasformazioni.






Due anni così, di pranzi davanti al computer, caffè roventi versati per sbaglio sulla tastiera, alternando una slide di una presentazione a una sfumata di vino bianco nel sugo, tra una chat di lavoro e il tragico bollettino delle 18:00, ascoltando messaggi vocali tra i fili del bucato e bruciando roba in forno per colpa di una call dell’ultim’ora, tra notti insonni e mattine che sembravano non finire mai.
È ora però di tornare a guardarsi negli occhi ritrovando il potere dell’incontro, superando finalmente interfacce, schermate, video meeting, live-chatting.


Ci vediamo presto nella vita di prima, dove cambierà tutto per non cambiare niente.